Note su “Con il Cuore
negli Occhi”
Una silloge è una raccolta di versi e i versi apparentemente non narrano una storia.
Una silloge non ha una trama, un plot, se non un impalpabile filo narrativo. Rappresenta gli stati d’animo del suo autore, ne incarna i dubbi, i tormenti, le gioie, i dolori e le speranze. Una raccolta di fonemi poetici sparsi in un ordine apparentemente illogico tesi a formare le parole di una lingua interiore e i suoni dell’anima del poeta. I versi, nelle loro fasi elaborativa ed espositiva, appartengono del tutto al poeta, che li compone, li smembra, li articola e disarticola fino a odiarli e infine ad amarli. Successivamente, come figli, essi prendono una strada diversa, penetrano nelle vite dei fruitori per richiamare sensazioni sopite o incosciamente nascoste, per rievocare tempi e spazi di un’età ormai passata, per indurre la riflessione sul presente e sul futuro degli esseri umani o dell'essere umano o solo per accompagnare una malinconia, consumando, come una canzone, i microsolchi dell’anima, Talvolta - succede - i versi entrano nella testa del lettore senza posarsi nell’anima e andando via, come ospiti inopportuni, non lasciano traccia. Ma questo non è certo il caso di Franco Vetrano.
Nel leggere e nel rileggere le sue poesie mi sono confrontato - mistero delle associazioni mentali - con un pensiero alquanto bizzarro: si può definire l’arte della poesia in termini geometrici? In altre parole, che forma dareste al bisogno poetico che c’è in noi? La risposta - che chiaramente riflette una elaborazione del tutto personale - è: un cerchio. Perchè un cerchio, allegoria del viaggio, parte da un punto, senza frantumarsi in angoli, per ritornare al punto di partenza. L’esperienza poetica - il bisogno di esprimersi, di capire, di urlare, nella continua ricerca di se stessi - parte da un punto per arrivare, attraverso elaborazioni e rielaborazioni, a un momento di sintesi, di catarsi. Secondo questa visione, nel viaggio all’interno della poesia di Franco - che nella realtà non è solo itinerario dell’anima, ma è stato anche itinerario fisico - possiamo riconoscere un prologo e un epilogo.
Il prologo è rappresentato da Urla in me:
Mi guardavi con occhi d’amore
Dolce, il tuo gesto
Diventa lieve carezza
Per non rubarmi al sogno.
Urlò feroce in te
Il dolore del distacco quando partii.
Urla ora in me quel dolore
Nel chiedermi dove sei, madre.
Il viaggio inizia con un distacco, una separazione, che è duplice: dagli affetti (la madre) e dalle radici (il paese, Spinoso). Il grido non è ferita, è di più. E’ intrico di groppo alla gola, freddo allo stomaco, senso di smarrimento. E’ lacerazione. Il dolce gesto della madre che diventa confortante carezza per non rubare a Franco il sogno è emblema di sacrificio genitoriale e mi richiama alla mente un passo di Se questo è un uomo di Levi. Inviati nel campo di internamento di Fossoli, presso Modena gli ebrei italiani internati sarebbero dovuti partire l’indomani mattina per una destinazione sconosciuta. Quella sera, come racconta Levi, “Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva [....] Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli [...] e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?
Il lettore, in uno spontaneo impulso di identificazione, tenderà a sovrapporre al viso della donna quello della propria madre. E’ naturale. E’ giusto. E’ capitato anche a me. E a una lettura intimistica il risultato, struggente e consolatorio, sarà sempre questo. Ma se ai versi di Franco vogliamo dare un carattere universale allora, nel gioco delle identificazioni, mi piace pensare che partendo dal bel ritratto di Michele Rocco, “Madre”, che correda la raccolta di poesie, sotto le mani che coprono il volto del soggetto ci sia, rappresentazione di tutte le madri, l’immagine sofferta e dolente della grande attrice Pupella Maggio.
Anche il paese è madre, è radici. E come madre invecchia ed è costretto ad abbracciare la solitudine. In Suonano di silenzio Franco descrive, con gli occhi della disillusione, la nuova visione che ha del suo paese dove
Piangono di solitudine i muri delle case
Che ci han visto partire dietro un sogno
Danzano nel vento i ricordi, e mi sferzano.
La vita altrove è fuggita, e con lei si son persi
I voli delle rondini e il vociare dei bambini.
Ma è l’immagine finale che, in tutta la sua potenza, ci trasmette l’essenza del luogo:
La bora fischia fra le case una triste nenia,
come madre che culla una bambola di pezza.
E’ ancora terra madre, ma non più fertile, non più capace di generare figli.
Franco ci accompagna in questo suo mondo interiore permeato di disillusione come in Orme dove nell’eterna ricerca di se stesso
Qui mi siedo, e senza più forza
attendo solo il mio ritorno.
O, ancor di più, in Rami spezzati dove, dopo i bombardamenti della vita, l’autore diventa metafora di disfatta:
Quelli come me, rami spezzati
Dell ’albero dell ’amara sconfitta
E’ una visione, questa, che diventa dopoguerra di un’anima che attende solo la Ricostruzione.
La rinascita, che è soprattutto di sentimenti, assume forme poetiche di assoluta bellezza e freschezza come, solo per citare qualche poesia, in A Quattro mani, Arco
D’Amore, Le tue mani nelle mie e Con il cuore negli occhi. Qui Franco indica la prospettiva da cui nasce la sua visione della vita e mostra la speciale lente progressiva con cui, correggendo la presbiopia e la miopia dello spirito, osserva il mondo interiore e spazia oltre l’orizzonte. Ma è soprattutto nella poesia Ti voglio bene
Ti voglio bene
Un bene bello e fresco,
come bucato profumato
che al sole si lascia asciugare
che la semplicità diventa complessità di sensazioni. Questi quattro brevi versi, di adulto candore, richiamano percezioni olfattive e cromatiche. Non so a quale soggetto siano essi dedicati ma a me rimandano, senza alcun apparente collegamento logico, all’innocente odore dei bambini e a grembiulini a quadretti azzurri.
Siamo alla fine di questo viaggio nel mondo espressivo di Franco. Viaggio arbitrario, certo, ma che segue la logica delle sensazioni. L’ultimo atto, epilogo di questo percorso circolare, è dato dalla poesia Povero vecchio mio.
Ti ho preso la mano
a me tesa, tremante.
Di sudore la fronte madida
con amore ho asciugato,
povero vecchio mio,
e gli occhi tuoi stanchi
han gridato forte
“ti voglio bene".
Non sappiamo se il povero vecchio rappresenti la figura patema, un parente o un amico. Non è vitale saperlo. E nel processo di identificazione e associazione somatica appaiono solo due occhi, acquosi e stanchi, oberati dal gravame della vita. Siamo partiti dalla pena del distacco per arrivare qui, dove dolore si unisce a dolore e dove ferita richiama ferita. Ma dove due occhi parlano ed esprimono con forza, in un tenero rapporto osmotico, un salvifico "ti voglio bene" di cicatrizzante potere.
E adesso, arrivato all’ultima curva, il cerchio inevitabilmente si chiude. Pronto a iniziare un altro giro.
Un’ultima nota. Leggo nella prefazione di Maria alla raccolta che Franco rifiuta l’appellativo di poeta. E' un bel problema. Come definire un uomo che vive, gioisce e soffre, e mette su carta quel suo vivere, gioire e soffrire in maniera non ridondante e con una apparente facilità di scrittura, e nel fare questo, infine, trasmette emozioni? Forse, Franco è un poeta per caso, ma di talento. A noi non resta che ringraziare il Caso che, in una delle sue innumerevoli combinazioni, lo ha posto sul nostro cammino.
Napoli, 2/III/2013
A Franco, con amicizia e gratitudine.
Bruno Castiello
Una silloge è una raccolta di versi e i versi apparentemente non narrano una storia.
Una silloge non ha una trama, un plot, se non un impalpabile filo narrativo. Rappresenta gli stati d’animo del suo autore, ne incarna i dubbi, i tormenti, le gioie, i dolori e le speranze. Una raccolta di fonemi poetici sparsi in un ordine apparentemente illogico tesi a formare le parole di una lingua interiore e i suoni dell’anima del poeta. I versi, nelle loro fasi elaborativa ed espositiva, appartengono del tutto al poeta, che li compone, li smembra, li articola e disarticola fino a odiarli e infine ad amarli. Successivamente, come figli, essi prendono una strada diversa, penetrano nelle vite dei fruitori per richiamare sensazioni sopite o incosciamente nascoste, per rievocare tempi e spazi di un’età ormai passata, per indurre la riflessione sul presente e sul futuro degli esseri umani o dell'essere umano o solo per accompagnare una malinconia, consumando, come una canzone, i microsolchi dell’anima, Talvolta - succede - i versi entrano nella testa del lettore senza posarsi nell’anima e andando via, come ospiti inopportuni, non lasciano traccia. Ma questo non è certo il caso di Franco Vetrano.
Nel leggere e nel rileggere le sue poesie mi sono confrontato - mistero delle associazioni mentali - con un pensiero alquanto bizzarro: si può definire l’arte della poesia in termini geometrici? In altre parole, che forma dareste al bisogno poetico che c’è in noi? La risposta - che chiaramente riflette una elaborazione del tutto personale - è: un cerchio. Perchè un cerchio, allegoria del viaggio, parte da un punto, senza frantumarsi in angoli, per ritornare al punto di partenza. L’esperienza poetica - il bisogno di esprimersi, di capire, di urlare, nella continua ricerca di se stessi - parte da un punto per arrivare, attraverso elaborazioni e rielaborazioni, a un momento di sintesi, di catarsi. Secondo questa visione, nel viaggio all’interno della poesia di Franco - che nella realtà non è solo itinerario dell’anima, ma è stato anche itinerario fisico - possiamo riconoscere un prologo e un epilogo.
Il prologo è rappresentato da Urla in me:
Mi guardavi con occhi d’amore
Dolce, il tuo gesto
Diventa lieve carezza
Per non rubarmi al sogno.
Urlò feroce in te
Il dolore del distacco quando partii.
Urla ora in me quel dolore
Nel chiedermi dove sei, madre.
Il viaggio inizia con un distacco, una separazione, che è duplice: dagli affetti (la madre) e dalle radici (il paese, Spinoso). Il grido non è ferita, è di più. E’ intrico di groppo alla gola, freddo allo stomaco, senso di smarrimento. E’ lacerazione. Il dolce gesto della madre che diventa confortante carezza per non rubare a Franco il sogno è emblema di sacrificio genitoriale e mi richiama alla mente un passo di Se questo è un uomo di Levi. Inviati nel campo di internamento di Fossoli, presso Modena gli ebrei italiani internati sarebbero dovuti partire l’indomani mattina per una destinazione sconosciuta. Quella sera, come racconta Levi, “Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva [....] Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli [...] e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?
Il lettore, in uno spontaneo impulso di identificazione, tenderà a sovrapporre al viso della donna quello della propria madre. E’ naturale. E’ giusto. E’ capitato anche a me. E a una lettura intimistica il risultato, struggente e consolatorio, sarà sempre questo. Ma se ai versi di Franco vogliamo dare un carattere universale allora, nel gioco delle identificazioni, mi piace pensare che partendo dal bel ritratto di Michele Rocco, “Madre”, che correda la raccolta di poesie, sotto le mani che coprono il volto del soggetto ci sia, rappresentazione di tutte le madri, l’immagine sofferta e dolente della grande attrice Pupella Maggio.
Anche il paese è madre, è radici. E come madre invecchia ed è costretto ad abbracciare la solitudine. In Suonano di silenzio Franco descrive, con gli occhi della disillusione, la nuova visione che ha del suo paese dove
Piangono di solitudine i muri delle case
Che ci han visto partire dietro un sogno
Danzano nel vento i ricordi, e mi sferzano.
La vita altrove è fuggita, e con lei si son persi
I voli delle rondini e il vociare dei bambini.
Ma è l’immagine finale che, in tutta la sua potenza, ci trasmette l’essenza del luogo:
La bora fischia fra le case una triste nenia,
come madre che culla una bambola di pezza.
E’ ancora terra madre, ma non più fertile, non più capace di generare figli.
Franco ci accompagna in questo suo mondo interiore permeato di disillusione come in Orme dove nell’eterna ricerca di se stesso
Qui mi siedo, e senza più forza
attendo solo il mio ritorno.
O, ancor di più, in Rami spezzati dove, dopo i bombardamenti della vita, l’autore diventa metafora di disfatta:
Quelli come me, rami spezzati
Dell ’albero dell ’amara sconfitta
E’ una visione, questa, che diventa dopoguerra di un’anima che attende solo la Ricostruzione.
La rinascita, che è soprattutto di sentimenti, assume forme poetiche di assoluta bellezza e freschezza come, solo per citare qualche poesia, in A Quattro mani, Arco
D’Amore, Le tue mani nelle mie e Con il cuore negli occhi. Qui Franco indica la prospettiva da cui nasce la sua visione della vita e mostra la speciale lente progressiva con cui, correggendo la presbiopia e la miopia dello spirito, osserva il mondo interiore e spazia oltre l’orizzonte. Ma è soprattutto nella poesia Ti voglio bene
Ti voglio bene
Un bene bello e fresco,
come bucato profumato
che al sole si lascia asciugare
che la semplicità diventa complessità di sensazioni. Questi quattro brevi versi, di adulto candore, richiamano percezioni olfattive e cromatiche. Non so a quale soggetto siano essi dedicati ma a me rimandano, senza alcun apparente collegamento logico, all’innocente odore dei bambini e a grembiulini a quadretti azzurri.
Siamo alla fine di questo viaggio nel mondo espressivo di Franco. Viaggio arbitrario, certo, ma che segue la logica delle sensazioni. L’ultimo atto, epilogo di questo percorso circolare, è dato dalla poesia Povero vecchio mio.
Ti ho preso la mano
a me tesa, tremante.
Di sudore la fronte madida
con amore ho asciugato,
povero vecchio mio,
e gli occhi tuoi stanchi
han gridato forte
“ti voglio bene".
Non sappiamo se il povero vecchio rappresenti la figura patema, un parente o un amico. Non è vitale saperlo. E nel processo di identificazione e associazione somatica appaiono solo due occhi, acquosi e stanchi, oberati dal gravame della vita. Siamo partiti dalla pena del distacco per arrivare qui, dove dolore si unisce a dolore e dove ferita richiama ferita. Ma dove due occhi parlano ed esprimono con forza, in un tenero rapporto osmotico, un salvifico "ti voglio bene" di cicatrizzante potere.
E adesso, arrivato all’ultima curva, il cerchio inevitabilmente si chiude. Pronto a iniziare un altro giro.
Un’ultima nota. Leggo nella prefazione di Maria alla raccolta che Franco rifiuta l’appellativo di poeta. E' un bel problema. Come definire un uomo che vive, gioisce e soffre, e mette su carta quel suo vivere, gioire e soffrire in maniera non ridondante e con una apparente facilità di scrittura, e nel fare questo, infine, trasmette emozioni? Forse, Franco è un poeta per caso, ma di talento. A noi non resta che ringraziare il Caso che, in una delle sue innumerevoli combinazioni, lo ha posto sul nostro cammino.
Napoli, 2/III/2013
A Franco, con amicizia e gratitudine.
Bruno Castiello