Ho conosciuto Franco Vetrano alcuni anni fa, in occasione di un Concorso Letterario in cui entrambi eravamo concorrenti. Fu un incontro sporadico, durato solamente alcune ore, sufficiente tuttavia per apprezzarne le qualità di uomo e di artista. Conversatore affabile, mi mise subito a mio agio parlandomi dei suoi lavori e facendomi leggere sue poesie che io trovai interessanti e intessute di molto afflato poetico, nonché significative sul piano degli argomenti trattati. Capii che in Franco avevo trovato non solo un poeta, ma anche un amico, anzi sembrava che tra noi due l’amicizia ci fosse stata da sempre, fin dall’infanzia, tant’era la naturalezza e la cordialità con cui andava avanti la conversazione. Amicizia che è continuata ma, data la distanza che separa le nostre residenze, si è potuta mantenere solo virtualmente tramite Facebook, su un sito letterario a cui entrambi siamo iscritti e dove postiamo nostri lavori, scambiandoci reciproci commenti. Internet però mi ha fornito ulteriori notizie su di lui, e ora so che è appassionato di musica (da ragazzo ha fatto parte di un gruppo musicale), che è appassionato di informatica e tiene corsi di alfabetizzazione sui computer ad alunni di scuole medie e ad adulti, che è appassionato di volo e ama leggere e scrivere. “Mi diverto a impiastricciare fogli di carta con versi e piccoli racconti”, ama dire di se stesso, ma io, su questo punto, non mi trovo d’accordo con lui, perché Franco non “impiastriccia”, ma scrive veramente, essendo le sue composizioni caratterizzate, come sopra ho sottolineato, da un profondo lirismo, da un sentimento sincero, oltreché da un contenuto in cui si rinviene una considerevole varietà di tematiche. Tutto un mondo poetico, quindi, che lui ha affidato alla presente silloge, perché i lettori possano gioire di quanto la sua mente e il suo cuore gli dettano. Già dalla prima poesia della silloge balza evidente quello che è il tema di fondo che caratterizza tutta l’opera: il senso della precarietà dell’esistenza, d’un nostro continuo morire trascinati dall’inarrestabile trascorrere del tempo e ingoiati dalla terribile, reale irrealtà del Nulla; la percezione della vita che – e qui è chiaro il riferimento al concetto eracliteo del divenire – lentamente fluisce e cinicamente ci riserva un ineludibile destino di morte. Leggiamo alcuni versi: “Foglia d’autunno alla bora cede / e dall’amato ramo si stacca / per sposare la terra umida”: un destino, dunque, simboleggiato da una fragile foglia che, analogamente alla foglia leopardiana, distaccandosi dal ramo e andando a marcire nell’umida terra, sta a significare la fugacità e la finitezza degli umani accadimenti. Un destino che è “male dell’anima”, ma da cui il poeta non si lascia abbattere del tutto vedendo i suoi occhi “oltre la luce / quando il dolore del mondo piangono”, perché “l’alba han visto nascere, / di un bel giorno dalla speranza nuova”: alba di nuovi giorni che si colorano di attese, aspirazioni, sogni, pur nella consapevolezza che gli occhi “un giorno si spegneranno”. Questo del sogno è un altro elemento che qualifica la poesia di Franco, come possiamo leggere in altri versi: “Voli dell’anima fatti di sogno / lontano portano gioie e dolori, / lontano da un corpo che stanco e liso / anela alla pace e chiede ristoro”; il sogno che è “un volo leggero dell’anima” verso “cieli di speranze”. E poi l’amore, struggente desiderio, tormento e insieme illusione e gioia del cuore. “Sono tralci di vite i tuoi capelli / hanno del mosto l’antico profumo… / affonderai in me le tue radici”: come dice in un’altra poesia, a dimostrazione che siamo in presenza di un poeta contraddistinto da un ricco e intenso vissuto interiore. Un ulteriore aspetto che caratterizza il mondo poetico del nostro è l’altro, profondo amore verso la natura, anche questo ricorrente nei suoi versi e reso tramite le numerose e felici immagini delle albe, dei tramonti, degli azzurri di cieli infiniti, dei mormorii del mare, dei silenzi della notte. Eccone un esempio: “Dal tramonto morente, / schiava di luna e stelle / sta sorgendo la notte. / Ora dorme la natura / sazia di sole e pioggia. / La mia anima veglia”, in cui si percepisce – ed è un’altra componente della sua poesia – come una sorta di panismo, un’intima fusione con le cose, intese quale alcova che, catarsi dell’anima, sopisce i dolori dell’esistenza. In tale contesto non poteva mancare il tema dell’amicizia, anche questa rifugio per condividere gioie e dimenticare delusioni, né quello del ricordo, a esprimere un passato che riaffiora come “viva fiamma” e di cui avverte ancora le voci, i suoni, i profumi, e, a questo intimamente legato, il richiamo della sua terra, la Lucania, di cui piange lo scempio che, “senza pietà né scrupoli di essa s’è fatto”, ma che resta comunque il paradiso della sua infanzia. E, per finire, il tema sociale: è il dramma degli ebrei, da un’ideologia assurda ridotti a “mandria umana con un solo numero sul braccio e a legna da ardere nei forni crematori”; come pure il dramma di tanti bambini vittime della violenza e della fame, e perciò “leggeri come foglie secche”, e quello dei migranti che lasciano l’inferno della loro terra verso un cammino di speranza. Dunque, il cinico scorrere del tempo, il senso della morte e del nulla, ma insieme le illusioni, di foscoliana e leopardiana memoria – sogno, speranza, amicizia, amore, panismo, quest’ultimo dagli echi dannunziani – e ancora, il suo passato, la sua terra, gli aspetti sociali: è un poetare complesso, quello di Franco Vetrano, da cui scaturiscono composizioni tese, e insisto su questo concetto, a esprimere la vita nella globalità dei suoi aspetti, di cui alcune composte a quattro mani con l’amica di sempre, l’altra bravissima poetessa Maria Rizzi, e che lo rendono poeta del suo vissuto come anche, col suo proiettarsi fuori della propria soggettività, poeta delle inquietudini che tormentano il mondo contemporaneo. Poesie, come si è detto all’inizio, profondamente ispirate, brevi, quasi frammenti lirici, contrassegnate da una felice scelta di parole e da altrettanto felici metafore: testimoni e a un tempo frutto di un’accurata riflessione linguistica. Poesie dal tono sussurrato, sommesso, quasi fossero una preghiera: così io le ho lette e, nell’invitare i lettori a fare altrettanto, concludo con l’affermare che siamo senza dubbio in presenza di un autore di notevole spessore letterario.
Vittorio Verducci